A tre anni dal mai dimenticato (se non altro da me) Snake Ropes di Jess Richards, decido che durante i miei giorni dublinesi mi dedicherò a Margaret Atwood, autrice che ne avrebbe influenzato la genesi. Angela Carter, altra scrittrice a cui la Richards è stata paragonata, non mi aveva affatto entusiasmata a causa del suo stile di scrittura barocco e per la caratterizzazione dei personaggi. Ma io non mi perdo d'animo e stabilisco che è arrivato il momento di affrontare la Atwood. Da "Chapters" trovo dunque The Handmaid's Tale, considerato uno dei suoi romanzi più importanti .
Mi aspettavo di ritrovare del realismo magico, un genere che vorrei approfondire e la ragione principale per cui ho interesse nel lavoro della Richards. Di realismo magico non si tratta. È un romanzo distopico, ambientato in un futuro dove gli Stati Uniti sono guidati da un governo teocratico che ha trascinato la nazione in un novello Medioevo, dividendo la società in caste. A causa di una qualche catastrofe nucleare si è raggiunta una situazione di crescita zero (ringrazio wikipedia per la terminologia) e le poche donne ancora in grado di concepire sono le cosiddette 'ancelle', al servizio delle famiglie più abbienti. E via con un discorso sul corpo femminile e il suo sfruttamento.
Discorso interessante, senza dubbio, specie per me che mi reputo femminista (leggi: sostengo l'utilizzo di trucchi e reggiseni, credo che uomini e donne debbano avere pari diritti; non sopporto veline o simili). La lettura scorre benissimo, specie per la narrazione in prima persona che catapulta subito nel mondo di Offred, la protagonista. Il mio unico problema con The Handmaid's Tale è che lo trovo poco... probabile. Forse è una mia ingenuità, ma non riesco a vedere un collegamento fra il mondo contemporaneo alla stesura dell'opera e la previsione di una società dove ogni famiglia ha un'ancella, la donne devono coprirsi fino ai piedi e non rivolgere la parola a nessuno. Non mi sembra qualcosa che potrebbe accadere domani, o che sarebbe potuta accadere (il romanzo è stato pubblicato nel 1985). Però, ho pensato, l'elemento della distopia potrebbe essere solo accessorio.
Ho apprezzato lo svelamento graduale di ciò che è successo alla protagonista, i dialoghi che sembrano quasi non pronunciati (significativa l'assenza di virgolette), quasi a voler rappresentare l'impossibilità di Offred di parlare, la negazione del diritto di espressione. Coinvolgenti, quasi poetici, i ricordi che affiorano a riprese, il suo dolore nel ricordare. L'immagine della figlia perduta, la sua incapacità di pronunciare e di rivelarne, a noi lettori, il nome.
lunedì 31 agosto 2015
sabato 29 agosto 2015
Gente di Dublino
Vuoto dentro. Vuoto dentro per aver vissuto un'esperienza che mi ha assolutamente riempita e arricchita. Dopo l'ultima sera ritorno a casa e mi sento triste, affranta e soprattutto vuota dentro. Ritorno a casa in autobus, siedo sola in prima fila al secondo piano, lo schermo della città di fronte a me. Le luci passano nel buio che cresce, mi sento vuota. Osservo la città di Dublino che mi ha ospitata per quasi un mese. Sto per andarmene.
Non sentivo un tale vuoto da cinque anni. Me lo ricordo bene. Il 20 agosto 2010, un'uggiosa giornata londinese. È il mio ultimo giorno di scuola e domani un aereo mi riporterà indietro, dove mi aspettano una casa in campagna, una famiglia che teme il mio malcontento e una decisione da prendere che dovrebbe colmarmi di gioia e che invece mi angoscia e non voglio affrontare, perché so che non sarà comunque ciò che desidero. E io ho aspettato tanto questo viaggio, il viaggio della mia vita. Il ritorno trionfale nella mia città.
Ma quella città non era mia. La casa in campagna, la decisione da prendere erano mie. E me ne ero resa conto e non riuscivo nemmeno a piangere. Mi sentivo vuota.
Così adesso. Vuoto dentro. Non so se Dublino sia la città dove voglio vivere. Mi ci sono adattata però, mi sono ambientata subito. La serenità, che non aspettavo, è arrivata. Il mio corpo e la mia mente erano su un'isola.
Vorrei, ho pensato, vorrei essere in grado di dire che rinuncio. Che prendo e me ne vado in Australia, per un anno dall'altra parte del mondo. Vorrei poter dire che rinuncio e mi trasferisco a Londra per scoprire se è davvero la mia città, che mi butterò tra le braccia di prospettive incerte, che non mi importa, che affronterò tutto ciò che mi si para davanti. Poter dire che mi tingerò i capelli di un altro colore, anche se sappiamo tutti che sarebbe stupido, che voglio imparare a cantare e dedicare tempo a studiare un po' di musica, studiare di meno per poter scrivere, anche se qualcuno ha detto che sarebbe stupido, che vorrei riuscire a fare un po' più di sport. Vorrei poter dire tutte queste cose, perché significherebbe che ho smesso di pensare.
E invece, cinque anni dopo, sono ancora qui. A pensare. Vuota.
Non sentivo un tale vuoto da cinque anni. Me lo ricordo bene. Il 20 agosto 2010, un'uggiosa giornata londinese. È il mio ultimo giorno di scuola e domani un aereo mi riporterà indietro, dove mi aspettano una casa in campagna, una famiglia che teme il mio malcontento e una decisione da prendere che dovrebbe colmarmi di gioia e che invece mi angoscia e non voglio affrontare, perché so che non sarà comunque ciò che desidero. E io ho aspettato tanto questo viaggio, il viaggio della mia vita. Il ritorno trionfale nella mia città.
Ma quella città non era mia. La casa in campagna, la decisione da prendere erano mie. E me ne ero resa conto e non riuscivo nemmeno a piangere. Mi sentivo vuota.
Così adesso. Vuoto dentro. Non so se Dublino sia la città dove voglio vivere. Mi ci sono adattata però, mi sono ambientata subito. La serenità, che non aspettavo, è arrivata. Il mio corpo e la mia mente erano su un'isola.
Vorrei, ho pensato, vorrei essere in grado di dire che rinuncio. Che prendo e me ne vado in Australia, per un anno dall'altra parte del mondo. Vorrei poter dire che rinuncio e mi trasferisco a Londra per scoprire se è davvero la mia città, che mi butterò tra le braccia di prospettive incerte, che non mi importa, che affronterò tutto ciò che mi si para davanti. Poter dire che mi tingerò i capelli di un altro colore, anche se sappiamo tutti che sarebbe stupido, che voglio imparare a cantare e dedicare tempo a studiare un po' di musica, studiare di meno per poter scrivere, anche se qualcuno ha detto che sarebbe stupido, che vorrei riuscire a fare un po' più di sport. Vorrei poter dire tutte queste cose, perché significherebbe che ho smesso di pensare.
E invece, cinque anni dopo, sono ancora qui. A pensare. Vuota.
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